– La Mostra –
L’abito da sposa è stato realizzato dalla Sartoria Nuvola di Recoaro Terme (VI).
Il ritratto controcorrente in uno studio sulla consorte di Francesco Giuseppe che unisce ricostruzione storica e analisi psicoanalitica.
Ogni mattina si faceva
portare su un vassoio
d’argento capelli caduti
Si pesava tre volte al giorno.
Poi annotava:
alta 1.72,
per 48 chili,
47 di giro vita.
Lontana dal mito romantico,
l’imperatrice anticipò le
adolescenti anoressiche
del Duemila che ne tenne in scacco femminilità e sensualità.
Biancaneve divenne Matrigna, ossessionata dalla bellezza.
di BARBARA STEFANELLI
Ogni mattina la sveglia era fissata alle cinque. Fedele a un’auto-disciplina ostinata, senza mai indugiare, Sissi scendeva dal grande letto che aveva fatto disporre al centro della camera: il più possibile lontano dalle pareti, dalle porte e da qualunque «presenza materiale». Anche durante la notte, nel sonno, il mondo doveva tenersi a distanza dall’imperatrice Elisabetta d’Asburgo. Le prime sei ore della giornata venivano dedicate a onorare la leggendaria bellezza di Sua Maestà che, splendida quindicenne, nel 1853 aveva incantato il giovane Francesco Giuseppe e con lui l’intero Paese. La prima a raggiungere Sissi nei suoi appartamenti era la parrucchiera personale, promossa al rango di «artista» e confidente. A lei veniva affidata quella straordinaria chioma castana, foltissima e luminosa, lunga sino alle caviglie, che si impone sontuosa in tutti i ritratti dell’epoca. L’orgoglio dell’imperatrice. Tre ore trascorrevano tra spazzole e nastri. E quando l’ultimo ricciolo chiudeva l’armonia della composizione, la coiffeuse schierava in fila su un vassoio d’argento «i capelli morti», rimasti impigliati nei pettini. A quel punto il numero dei «caduti» stabiliva l’entità della punizione, che nelle giornate peggiori esplodeva in uno schiaffeggiamento isterico. I capelli perduti dovevano apparire a Sissi come sottili scalfitture nella fortezza del suo fascino, come una sfida lanciata dal nemico alla torre in cui si era rifugiata per contemplare dall’alto l’universo. Con la stessa ansia curava il fisico, ne controllava il peso e misurava le curve, anche tre volte al giorno, pronta a digiunare per settimane contro un grammo o un millimetro sgraditi, insensibile al cibo e all’etichetta dei ricevimenti ufficiali alla Hofburg. E su un diario annotava: altezza un metro e 72, 48 chili, 47 centimetri di giro-vita. Cavallerizza famosa, dominatrice nelle stagioni di caccia inglesi, fu anche una pioniera del jogging, del nuoto, persino del body-building che praticava con attrezzi e pesi ovunque si trovasse: da Schönbrunn alla Grecia, a tutte le mete di quegli infiniti viaggi in cui si lanciava solitaria, lasciandosi alle spalle famiglia e corte. Visse fino a sessant’anni come un’adolescente, tra un culto ossessivo di sé e un a ricorrente anoressia. Convinta che la propria bellezza – una bellezza quasi ascetica, diversa dal morbido modello ottocentesco – fosse un sigillo di superiorità. Trionfante in un disperato «riscatto estetico» su una vita che non l’appagava e un’umanità che non amava. Tormentata, nevrotica, sola. Dopo quattro generazioni di miti popolari, di film da favola e di biografie bestseller, è un’Elisabetta d’Asburgo ancora nuova e ancora sorprendente quella che rivive in uno studio controcorrente appena pubblicato in Austria. Uno studio che unisce la ricostruzione storica all’analisi psicanalitica, uno «psicogramma» che si trasforma in psicodramma: svela dal profondo il mistero della «principessina romantica», dell’«eroina ribelle», della «dolce Sissi» a cui Romy Schneider diede corpo e anima nei film alla panna montata degli anni 50. Gli autori – Gabriele Praschl-Bichler, esperta di storia asburgica, Gerti Senger, fondatrice dell’Istituto viennese di psicologia del profondo, e Walter Hoffmann, psicoterapeuta – ripercorrono il cammino esistenziale di Elisabetta: avvicinano mito e verità, origini Wittelsbach e fuga dagli Asburgo, tic e poesia, rapporti con gli uomini e le donne, maternità, vita coniugale, giochi d’amore. E ne individuano una modernità sinora nascosta: se ai cultori della mitologia viennese è piaciuto dipingere l’imperatrice come il prototipo della «ragazza bavarese tutta salute e spontaneità», Elisabetta si rivela invece molto più vicina a una visione di donna androgina. «Né maschio né femmina, attraversò irrequieta il mondo come un essere infantile, asessuato o del ‘terzo sesso’, anticipando il senso di mobilità e sradicamento che segna la nostra epoca». Tanto attuale – affermano i tre scrittori di «Kaiserin Elisabeth, Mythos und Wahrheit» (editore Ueberreuter) – che oggi potremmo parlare di una Sindrome-Sissi: la sofferenza per una femminilità vissuta innanzitutto come maternità, l’orgogliosa opposizione a un modello sociale che pone la donna a un bivio tra famiglia e «carriera». Simile a una top model anni Novanta e a tutte le ragazze che vorrebbero esserlo, l’imperatrice d’Austria combatteva sola contro il cibo e contro il tempo in difesa di un proprio ideale estetico-esistenziale. La sua concezione del bello non avrebbe voluto contemplare la gravidanza: la fioritura del seno, l’arrotondamento dei fianchi, il grembo che si fa generoso. Giovane Narciso, aggrappata alla frontiera della pubertà, rappresentò la donna-bambina che si oppone al la propria evoluzione sessuale (e sociale) pagando con l’anoressia il prezzo di una battaglia combattuta nel subconscio. La Sissi-Romy Schneider dalle guance rosse centrò il personaggio, oltre la volontà del regista Ernst Marischka, in quel candore insistito di adolescente rapita dai sogni. Ma è nel «Ludwig» di Luchino Visconti che sempre Romy Schneider, quindici anni dopo, ora dama nera e sfuggente, riesce a incarnare gli oscuri tormenti di Elisabetta. L’origine dei turbamenti dell’imperatrice sarebbe da cercare, secondo gli autori, nell’ambiente familiare d’origine: in quella Baviera dei Wittelsbach dove crebbe dominata da un’attrazione fatale per la figura del padre Max, forte e fragile, sempre in fuga dai doveri di famiglia e di rango . Condizionata dal modello di «irresponsabilità» paterna, Sissi divenne sposa del sovrano d’Austria a 16 anni, madre a 17, ma restò prigioniera di una nevrosi irrisolta che ne avrebbe impedito qualunque maturazione psichica. Giunse a Vienna lungo il Danubio su una nave coperta di fiori, venne portata a Palazzo su una carrozza d’oro trainata da cavalli bianchi, e dopo due settimane già sospirava in versi. La favola era finita, Elisabetta si sentiva prigioniera di «un carcere». Sinceramente infatuata del giovane Francesco Giuseppe, fu poi incapace di amarlo. Ma riuscì a dominarlo per 45 anni. Rifiutandosi a lui nelle prime notti di nozze, giocando sin da allora con la negazione di sé, stabilendo subito un rapporto di forza. E così continuò nel tempo: si teneva lontana da Vienna, scriveva poco, concedeva solo brevi periodi di vita comune. Stregato dal suo carattere egocentrico e da quell’eccentrico fascino, l’imperatore non smise mai di inseguirla. Nelle lettere rovescia la sua fama di uomo burocratico, la invoca sempre come il suo «angelo» e si firma «il tuo ometto». La dolce Sissi – si legge nel capitolo dedicato alla coppia imperiale – rappresenta in realtà un tipo di donna dominatrice alla Brunilde, che sfida gli uomini alla battaglia per poi annientarli. Lo stesso schema regola i rapporti con i tanti amici-amanti. Dall’aristocratico ungherese Gyula Andrassy al giovane ufficiale William Bay Middleton. Tutti i fuochi vennero accesi e alimentati sino a raggiungere un massi mo di tensione sentimentale. Per poi venire precipitosamente spenti e ridotti in cenere. Incapace di abbandonarsi alle passioni, innamorata piuttosto dell’amore suscitato dalla propria bellezza, Sissi fuggì sempre davanti a un adulterio che non fosse solo un valzer platonico. Esemplare fu una beffa erotica giocata al principe di Galles, futuro Edoardo VII, accolto in négligé in camera da letto. Sino all’improvviso – e concordato – irrompere di una dama di compagnia al momento dell’abbraccio. La burla venne celebrata da Sissi in una delle tante liriche in cui ride del mondo. Intitolata: «There’s somebody coming upstairs», c’è qualcuno che viene su dalle scale. Solo nei sogni con i suoi grandi amori ideali – l’eroe greco Achille e lo scrittore Heinrich Heine – e nelle poesie che ne derivarono, Sissi immagina momenti di «fusione» e «penetrazione». Nella realtà dominano frigide le parole. La sua vita erotica fu una lunga serie di occasioni bruciate, di desideri inappagati, di struggenti visioni che la lasciarono affamata e assetata. L’imperatrice «romantica» fu incapace di amare. Anche il rapporto con i figli restò freddo e fragile. L’eccezione fu Marie Valerie, la più piccola, nata nel 1868, attraverso la quale Sissi cercò di ricreare se stessa: la chiamava «la mia figlia unica», le scriveva lettere traboccanti un affetto morboso, la educò secondo le sue idee e le sue passioni. Marie Valerie si difese con il silenzio: diventò quasi muta. Una volta libera, si abbandonò alla vita familiare e diede alla luce nove figli. Elisabetta rimase così sola sino alla fine, sino a quel giorno di settembre del 1898 in cui venne uccisa dall’anarchico Luigi Luchini a Ginevra. Negli ultimi anni aveva smesso di scrivere poesie e di cavalcare. Continuava a collezionare immagini di donne bellissime che si lasciava inviare dagli ambasciatori imperiali: ballerine e acrobate, le sofisticate dame dell’aristocrazia, i volti segreti dell’harem. Per lei, non più giovane, era un’ossessione. Ma non c’erano tendenze omosessuali, come qualcuno insinuò. Il tarlo era sempre lo stesso: Biancaneve diventava Matrigna e si chiedeva chi era la più bella del reame. Intanto lei, assediata da un precoce invecchiamento della pelle, nascondeva le rughe dietro cappelli, ventagli, ombrellini. Ma non rinunciò mai a muoversi, a viaggiare, a fuggire dal centro, mentre l’impero e la famiglia andavano in pezzi. L’imperatrice che non tollerava la presenza di sedie nelle sue stanze, che costringeva persino i suoi insegnanti a farle lezione passeggiando incessantemente, cercava nel movimento un impossibile riposo interiore. «Questo bisogno irrefrenabile si lascia interpretare come negazione simbolica: era un modo di divenire inafferrabile, fisicamente e mentalmente. Chi desiderava avvicinarla, doveva correrle dietro». Un moto fine a se stesso, senza una direzione e un senso, un girare attorno al mistero di quell’irrequietezza che aveva spezzato la sua vita e quella delle persone a lei più vicine. Il mistero di una donna in testarda opposizione al suo tempo ma in costante controdipendenza dalle regole: meraviglioso uccello del paradiso incapace di spiccare il volo. Una notte, durante una tempesta che colse il suo yacht, si fece legare all’albero dell’imbarcazione «per ammirare la potenza del mare». Come Ulisse in lotta con le Sirene. Per i tre esperti che hanno fatto accomodare Sissi sul lettino in 300 pagine di analisi, questa è l’immagine-chiave: Elisabetta d’Asburgo, «la dolce imperatrice dell’amore», visse come incatenata davanti alle forze oscure della propria interiorità, prigioniera di una nevrosi che ne tenne in scacco femminilità e sensualità. Naufraga in quel mare da cui nacque Venere.
Fotoerzählung über Leben und Tod einer Kaiserin
Lassen wir uns fallen und folgen wir der abstrakten Reise des gerührten und aufmerksamen Auges eines Künstlers, der aus innerem Antrieb mit großer Empfindlichkeit die mythische Figur der Kaiserin Elisabeth von Österreich – Frau Kaiser Franz Josephs – wieder aufsuchte.
Inspiriert durch das Tagebuch von Christomanos Constantin – Elisabeths Lehrer für Griechisch – und durch Biographien über Elisabeth führt uns Umberto Cornale um den Kreis einer kurzen und mit Vorbedeutungen beladenen Existenz herum, eines einsamen und strittigen Lebens, das in der Künstlereinhildung nie völlig abgeschlossen ist.
In einer Sequenz von Darstellungen spielt das Kleid auf der Lehensbühne alle Rollen als Symbol einer wandelbaren, vielfältigen, aber untrennbaren Identität. Ein Kleid als Selbstbild, das als eines von vielen zu den vielen Anlässen eines Lebens getragen wird und das geliebt, erlitten, abgelehnt, bewundert wurde, aber nur der Spiegel einer wahren Existenz bleibt, einer heftigen und empfundenen Existenz, die sich hier Auge in Auge mit dem Mythos findet.
Der Betrachter sucht in der Sequenz die Welt von Elisabeth ab, er kann alles von innen und außen in dem zärtlich und ironisch dargestellten Bild der “engelhaften Sisi” sehen, so wie auch in der einsamen Möwe ohne Heimat und Freunde, die ein sehr geliebtes Selbstbild für die Prinzessin immer gewesen war, Symbol der Freiheit und gleichzeitig schwarze Möwe in ihrer Einbildlung, dunklere Voraussage eines Todesschicksals.
Traum und Abstraktion sind eigentlich die Räume von Elisabeths Lebensweise, sowohl oben auf einem der von ihr geliebten Alpengipfeln als auch vor der breiten und gleichfalls geliebten See: In diesen Geistesräumen zeichnet sich die Beschwörung des Todes ab und erscheint das Kleid dadurch als Hauptfigur.
So wertvoll scheint auch die Waffe zu sein, die den Tod verschenkt und den schweren Traum in Lebensblicke – “offizielle” Bilder und andere, “gestohlene”, innere Porträts – verteilt. Aus der Arntlichkeit ihres Lebens lohnt es sich, an die zahlreichen Besuche in Irrenanstalten zu erinnern, denen ihre besondere Aufmerksamkeit gewidmet war und die hier durch das Wiederspiegelungs- und Identifikationsverfahren des Kleides dargestellt werden.
Wahnsinn ist hier nicht nur ein Ereignis, es ist ein Thema-Symbol in seiner “gegenseitigen” Bedeutung, wo Vernunft und Wahnsinn ihre Stelle vertauschen, so wie die Kaiserin selbst meinte.
Das Beobachten fährt uns mit helldunklen Kontrasten an und läßt das Spiel unter Realität, Traum und Phantasie vor unseren Augen ablaufen, während zerreißende Wortpaare wie Glücklichkeit, Traurigkeit, Einsamkeit in der Gesellschaft, Freiheit und Gefangenschaft das Spiel begleiten.
Die unerfüllte Harmonie bringt heftige Reaktionen hervor, sie weist Liebe als Wert zurück, treibt zur Verherrlichung der Schönheit als einzige Kraftquelle, und daraus endlich erscheint der griechische Mythos des Helden Achilles als Rettungshoffnung. Dem Helden Achilles, diesem Symbol von absoluter Unabhängigkeit, von beharrlichem Willen und harmonischer Schönheit, widmete Elisabeth sogar einen Palast.
Diese Mythenphantasie scheint sich aber gerade umgekehrt zu verwirklichen und am Ende in das Reich der Unmöglichkeit, der Leere zu münden, wo solche Qualen entstehen, die das Gleichgewicht der eigenen Identiät verwirren und unkontrollierte Kräfte losbinden.
Jene königliche “Wespentaille” ruft sinnlose Zwangsvorstellungen von Magerkeit zurück, während Brautschleier und Trauerflor sich in unserem geschichtlichen Gedächtnis verknüpfen und die Ahnung des Encles noch schärfer machen.
Als Ersatz für die ironische Logik des Schicksals will das fotografische Auge dennoch eine Phantasiecinterreclung zwischen Elisabeth als Mythos und Elisabeth als Wirklichkeit, zwischen dem Kleid mit tausend Wertigkeiten und der Pracht des Königtums einführen.
Es ist aber nur in der Dimension der Einsamkeit und des Nachdenkens, daß dieses Treffen stattfindet, und zwar in einer Einsamkeit, die den Geist zur Annahme eines tragischen Schicksals treibt und einen einfachen “Abgang” rechtferrigt.
Die Ausstellung ist in 13
Abschnitte gegliedert und
umfaßt insgesamt 136 Bilder.
Ausstellungsort:
Schloßtheater Laxenburg –
Kontrollorgang
Zugang Konferenzzentrum –
Parkhaupteingang
Vernissage:
Donnerstag, 3. Septeinher 1998,
18 Uhr (gesonderte Einladung)
Öffnungszeiten:
Freitag, 4., bis Sonntag,
27. September 1998
jeweils Samstag und Sonntag
9 bis 12 Uhr und 13 bis 18 Uhr
oder nach Vereinbarung.
Eintritt: öS 25,-