Il vestito da sposa

Storia in sequenza dedicata all’Imperatrice d’Austria Elisabeth
(composta da 137 fotografie)

Abbandoniamoci e seguiamo il viaggio astratto dell’occhio commosso e attento di un’artista che rivisita la figura-mito di Elisabetta d’Austria – moglie di Francesco Giuseppe – in chiave intimistica e con tono profondamente umano. 

Traendo spunto dal Diario di Christomanos Constantin – insegnante di greco della principessa Imperatrice – e dalle biografie a lei ispirate, Umberto Cornale ci guida attorno al cerchio di un’esistenza breve e carica di presagi, solitaria e controversa, mai davvero conclusa nell’immaginario dell’artista.

Un vestito gioca tutti i ruoli della scena come simbolo di un’identità mutevole, sovrapponibile ma inscindibile, in una sequenza di rappresentazioni. Un vestito come immagine del sé, indossato da molti per i molti momenti di una vita, amato, subito, ammirato e pur sempre specchio di un’esistenza reale, intensa e sofferta, che qui ci trova faccia a faccia con il mito.

L’osservatore esplora in sequenza il mondo di Elisabetta visto da dentro e da fuori, nell’immagine tenera e ironica dell'”angelica Sissi”, come pure in quel gabbiano solitario senza patria né compagni in cui la principessa amava identificarsi, ideale di libertà e insieme “gabbiano nero” – così da lei immaginato – presagio di un oscuro destino di morte.
Ed è infatti in una dimensione di sogno e di astrazione, alla quale volentieri la giovane Elisabetta si abbandonava dall’alto di amate vette alpine o volgendosi verso l’esteso e altrettanto amato mare, che l’evocazione della morte prende corpo e l’abito fa la sua comparsa come protagonista.

Preziosa è l’arma che dà la morte e dissolve il breve sogno in momenti di vita – immagini “ufficiali” – ed altre “rubate”, di introspezione.
Dall’ufficialità della sua vita vale ricordare le numerose visite ai manicomi, svolte con attenzione speciale e qui rappresentate nella doppia identificazione di cui il vestito è strumento.

La follia qui non è solo un episodio, è un tema-simbolo nella sua accezione al contrario, che vede senno e follia scambiarsi di posto, accezione accolta tra i pensieri dell’Imperatrice stessa. Osservando siamo investiti dai contrasti del chiaro-scuro, dal gioco che si svolge sotto i nostri occhi tra realtà, sogno e fantasia e ci restituisce binomi laceranti di allegria-tristezza, solitudine in compagnia, prigionia e libertà.

L’armonia mancata genera reazioni violente, respinge l’amore come valore, porta ad esaltare la bellezza come unica fonte di forza ed in essa il mito greco dell’eroe Achille appare come speranza di salvezza. Ad Achille Elisabetta dedicò un palazzo, a questo simbolo di indipendenza assoluta, di ostinata volontà e di bellezza armonica. La mitologia sembra però attuarsi al confronto e sfociare infine nel regno dell’impossibile, del vuoto, delle ossessioni che stravolgono l’equilibrio della propria identità e scatenano forze incontrollate.

Quale regale “vitino da vespa” evoca assurde fissazioni anoressiche mentre velo nuziale e velo funebre si associano nella nostra memoria storica e rendono incisivo il presagio della fine.

Alla dialettica ironica del destino l’occhio fotografico vuole tuttavia sostituire un dialogo immaginario tra Elisabetta-mito ed Elisabetta-realtà, tra l’abito delle mille valenze e la magnificenza della regalità. Ma è soltanto nella dimensione della solitudine e della riflessione che quest’incontro si realizza, una solitudine che muove l’animo all’accettazione di un tragico destino e lo giustifica come una semplice “uscita di scena”.